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lunedì 25 marzo 2013

Datemi una dose di celebrità - Antiviral

antiviral-cronenberg
Meglio mettere subito in chiaro che il regista è il figlio di David Cronenberg, si chiama Brandon, come uno dei celebri protagonisti di Beverly Hills 90210 o come lo sfortunato figlio di Bruce Lee morto durante le riprese di Il Corvo.
Brandon poteva fare una tranquilla vita di rendita e invece sceglie una via di mezzo: segue le orme del padre e ne fa il suo ispiratore. Per essere precisi questo suo primo film ricorda in certi tratti Il pasto nudo, Videodrome, eXistenZ. Quindi il riferimento è il David Cronenberg invischiato nel corpo mutante, non quello più recente che si destreggia in fiumi di parole.
Se nei temi e nell'estetica si sentono pesanti le influenze paterne, nel complesso tecnico manca la “stoffa”. La sensazione che mi ha lasciato il film e quella che si prova con quelle persone, specie giovinetti, che si vestono “da” per sembrare quello che vorrebbero essere, ma che non riempiono quei tessuti con una propria personalità.
Il primo quarto d’ora fa sperare bene, siamo in un futuro dove i personaggi famosi sono così idolatrati che i fan bramano spendere il loro denaro per farsi contaminare dagli stessi virus contratti dalle amate star. Un giovane impiegato in una delle due società che hanno la licenza per trattare la diffusione di questo tipo di patogeni, si trova nel mezzo di un classico intrigo fra doppio gioco e poteri forti. Nell'evolversi della storia le cose diventano poco convincenti.
Brandon Cronenberg non riesce a replicare quello che aveva fatto Duncan Jones, altro figlio d’arte (David Bowie), saltato fuori subito con stile nella prova del primo lungometraggio grazie a Moon. L'idea di Antiviral è interessante con la morbosità per le celebrità spinta fino al concetto di cannibalizzarne il corpo, con l'ambientazione in una società dell'immagine dove non sono presenti veri sentimenti ma solo dipendenze e la realtà appare costruita su un'allucinazione collettiva; purtroppo storia e rappresentazione sono vacillanti e la regia spesso imbrigliata in iconiche inquadrature.
Si potrebbe anche leggere tutta la faccenda in modo metacinematografico, ossia fare un parallelismo della storia come espressione dell'amore-odio per l'inevitabile "influenza" paterna, ma non dona niente al film se non un po' di comprensione per una condizione scomoda. Sgradito

Qualcosa in comune con: